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L’Ospedale dove ho lavorato dal 1976 al 2000, visto e vissuto dall’altra parte della barricata, quella del paziente, non è solo “apparenza”.
Per una serie di ragioni, che si sono casualmente concentrate in pochi giorni, ho vissuto direttamente su di me, su parenti stretti e su amici, alcune dell’esperienze che attraversano i pazienti acuti e quelli programmati che entrano tra queste mura.
Le varie storie hanno concretizzato episodi che sono andati a costituire come un unico casuale “test di verifica a campione” delle prestazioni che eroga il “nostro” Ospedale di oggi.
Dai fatti capricciosi della vita, sono stato costretto a respirare l’aria di alcune delle sale di emergenza come quella di alcuni dei luoghi della quotidiana diagnostica e di degenza.
La mia non è stata una forzata rimpatriata al Pronto Soccorso con il pensiero: “speriamo che io me la cavi” e neppure un dover credere che “il medico serva solo per morire con l’illusione di guarire”. Sono state “globalmente verificate” la professionalità e l’efficienza presenti in Pronto Soccorso, Cardiologia, Elettrofisiologia, Emodinamica, Cardiologia, Endoscopia, Radiologia, Medicina, Poliambulatori … e Servizi.
Diciamo subito che ovunque ho trovato personale empaticamente presente al paziente e che è riuscito sempre a non fargli provare la bruttissima sensazione di sentirsi un numero.
Curioso è stato constatare in quasi tutti gli operatori dei denominatori comuni. Per esempio risulta evidente, a chiunque voglia farci caso, il sovraccarico di lavoro al quale sono sottoposti. Loro ci scherzano sopra immaginandosi più avanti con gli anni, ancora in servizio, indossando pannoloni e tremanti per il Parkinson. Vedono lontanissima la pensione e soffrono l’ossessione della burocratizzazione forzata delle loro mansioni che gli fa dire che “era meglio quando si stava peggio”. Eppure nonostante tutto ciò li vedi impegnarsi, con gesti semplici ma spontanei di cui neppure loro stessi si rendono più conto, per cercare di supplire ed alleviare al paziente i disagi di patologie, forse anche semplici, ma che vengono vissute dai soggetti come uniche, gravi e prioritarie su tutto.
Si, sono convinto che la gran parte del personale stia lavorando al massimo delle proprie possibilità ed ancora “sotto il ricatto” di una personale scelta fatta, e quotidianamente rinnovata, di voler porre comunque il “paziente sempre al centro”. Quasi una crociata la loro, per abolire il ruolo del “paziente-optional” che l’organizzazione politico-burocratica sovente sembra cucire addosso al così detto “utente”.
Innegabile inoltre che i pazienti siano sempre più esigenti ed egoisticamente insensibili, con una gradazione di livello che è esattamente inverso al rapporto con la gravità oggettiva della propria patologia: “meno è grave più pretende”.
Poi ci si mette anche la “medicina difensiva” a rendere le cose ancor più complesse.
Io sono certo; profondamente convinto, che ciò che ci salva ancora oggi come ieri è quella “umanità” presente nel personale incontrato. Quella che fece loro scegliere di lavorare nella sanità e che ancora oggi li motiva in questa lotta giornaliera in spassionata difesa del paziente contro tutto e tutti.
Da paziente la percepisci come un qualcosa che sta dicendoti: “non temere, vinceremo noi … anche se sembriamo perdenti”. Avverti una energia che neanche il sovraccaricato di lavoro che tenta costantemente di spingerli verso il freddo tecnicismo di un “mestiere-lavoro su oggetti” riesce a soffocare.
Si, sono rimasto colpito dalle varie professionalità; eccezionali e vissute con una semplice quotidianità da sembrare essere inavvertita dagli stessi soggetti che le posseggono. Si va dalla professionalità di una inserviente, che si autodefinisce “una sardina”, dove scopri avere una forza indomita dentro ad un corpicino apparentemente fragile, per arrivare alla professionalità di chi ha appena portato a termine un delicato intervento ed al sincero e dovuto “grazie” che riceve risponde d’istinto: ”grazie di che cosa?! Non ho fatto nulla”. Un nulla sul quale neppure più si sofferma, ma che per il paziente significa una “nuova vita”; uno “scampato pericolo”.
Buonismo questo ? Chiamatelo come volete, l’importante è che ci sia.
“Ragazzi”, dico a tutti voi da “vecchio”:
- che sono rimasto impressionato per come siete stati capaci di mantenere il “nostro” ospedale, che ho lasciato circa 15 anni fa, al passo con la crescita del sapere e della tecnologia medica;
- che sono profondamente felice nel constatare che, “umanamente parlando”, i giovani stanno facendo di tutto, nonostante tutto, per tenerlo “vecchio” come cercammo di fare noi.
A mio parere queste due cose sono l’ennesima conferma che, se in Italia incappi in una patologia “seria”, la medicina italiana non è “tra” le prime al mondo; è la prima…. E puoi trovarla sotto casa nel “nostro (di tutti, operatori ed utenti) ospedale”.
Un abbraccio riconoscente e “buon lavoro!”
Pino Bollini


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