Viaggiando in rete ho casualmente incontrato ... la presentazione di un libro di Alfredo Caponnetto
"Dove non giunge la sera"
Gradevolissima sorpresa.
Non ne conoscevo l'esistenza e, tanto meno, ho mai incontrato l'autore.
Ma ho conosciuto tutti i personaggi citati ... ho frequentato i luoghi descritti ...
Il racconto del viaggio, dei posti e dell'emozioni connesse ...
mantiene incredibilmente una fresca contemporaneità. Oggi come ieri.
All'epoca, circa 20 anni fà, vivevo a Laisamis, sulla pista per Sololo.
Sono cambiati quasi tutti quei personaggi d'allora ma, in sostanza, non sono mutate le condizioni di base di vita di questa popolazione dimenticata, tra la quale continuo a vivere oggi.
Sono convinto più che mai che non è stato vano ciò che, con Pina altri come lei, hanno donato pagando sovente di persona ...
Pensando a loro e a quel mondo, sento la responsabilità di testimoniare ancora oggi un genere di cooperazione che non vive di sola "tecnologia".

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Alfredo Caponnetto

dalla Prefazione

...Le immancabili lezioni che la vita propina prendono corpo anche dall'esperienza di un viaggio umanitario in Kenya per dare sostegno ad un amico fraterno. Davanti agli occhi le disperanti condizioni nelle quali una parte dell'umanità si dibatte, la situazione precaria in un mondo sofferente dove la miseria è totale e la speranza per un domani migliore è quasi nulla. Quale futuro per chi non ha niente, per chi vive ai margini e come unica compagna ha la morte e la sopravvivenza è legata a una naturale resistenza alle infezioni: parole semplici ed immediate che mostrano l'integrità e la profonda umanità di un uomo che non sceglie la strada più comoda del silenzio ma quella ben più ardua dell'azione e dell'amore, per offrire al lettore un rinnovato slancio per oltrepassare il muro dell'indifferenza. Momenti di abbandono al flusso incessante dei ricordi che rimangono sempre vivi, i valori dell'uomo nei quali credere: dall'adolescenza fino alla maturità.

Massimo Barile
All'inferno e ritorno
di
Alfredo Caponnetto
L'appuntamento era all'aeroporto di Fiumicino. Io proveniente da Milano Linate e Roberto da Torino Caselle. Non ci conoscevamo. Ci aveva messo in contatto un'organizzazione non governativa che opera nelle missioni del Kenya, il CCM di Torino. Avevo insistito io a non andare da solo poiché, non essendo completamente padrone della lingua inglese, temevo di trovarmi in difficoltà.
Andavo in Kenya a dare sostegno ad un amico fraterno, che fra l'altro in quel mese di gennaio si sarebbe trovato a fronteggiare, oltre agli ammalati indigeni, anche la nascita del suo primogenito. Roberto, invece, era un veterano di questi viaggi umanitari, ed era inviato a Sololo in qualità di economo, a sostegno di Gianfranco e della moglie che invece si occupavano della parte più squisitamente operativa, essendo lui un chirurgo e lei un'educatrice.
All'aeroporto chiesi ad una hostess di poter annunciare che il signor Roberto era atteso all'uscita 22. Io ero lì ad aspettare. Quando comparì al bancone, poco dopo, fui io a presentarmi. Ci stringemmo la mano cordialmente, io visibilmente sollevato, e lo invitai a prendere un tè al bar. Mentre sorseggiava, cominciò a raccontarmi dei suoi innumerevoli viaggi, che era sposato e senza figli, e che la moglie si era sempre rifiutata di accompagnarlo. Non chiesi il motivo di questo comportamento; ci conoscevamo da qualche minuto, e in ogni caso scavare nella vita degli altri non era mai stato il mio gioco preferito.
Mi spiegò, con dovizia di particolari, quale sarebbe stato il nostro itinerario. Io conoscevo solo dalle cartine del Touring il Kenya, e mi ero già tracciato quello che supponevo il tragitto ideale per arrivare a Sololo. Roberto fu invece molto più preciso.
Alle 20 fummo chiamati per l'imbarco. Ci aspettavano 10 ore di viaggio, il mio primo viaggio a lunga percorrenza.

Il Boeing 767 dell'Alitalia atterrò sulla pista di Nairobi all'alba.
Sarà stata la suggestione di trovarmi in un nuovo continente, ma quell'alba la ricordo ancora come una delle cose più belle mai viste in tutta la mia vita. Un'altra alba era stata straordinaria, molti anni prima, durante una freddissima notte di Natale, quando avemmo la poco felice idea, Orazio Salvo ed io, di andare alle due del mattino al rifugio Sapienza, sull'Etna, a bordo di una Fiat 500 L, della quale non conoscevamo nemmeno l'esistenza del riscaldamento, posto sotto il sedile posteriore e costituito da una piccolissima levetta che bisognava girare nell'unica direzione possibile. Rischiammo davvero l'assideramento. Sul piazzale del Rifugio godemmo della vista del sole che sorgeva dal mar Ionio, lentamente, con i colori tenui e dolci della natura. Ci sembrò la prima alba del mondo, come se Dio stesse lì con noi a costruire l'universo.

All'aeroporto di Nairobi c'era John, il driver, ad aspettarci.
Salutò calorosamente, con un abbraccio, Roberto, dandogli delle pacche sulle spalle, felice di rivederlo. Roberto ricambiò la cordialità, e cominciò a scambiare le ultime novità: chiese come stavano i due frati di Sololo che mandavano avanti la missione, chiese della situazione generale - che significava politica - ovvero se c'erano rifugiati come l'ultima volta o se le cose stavano migliorando. John era di etnia kykuyo, e aveva la pelle che sembrava spalmata con il lucido delle scarpe, da fare impressione. Era piuttosto piccolo, muscoloso e dava l'idea di saper fare tutto, se necessario.
Ci portò prima dai Padri Comboniani, in un lungo viale alla periferia di Nairobi - dove speravo di incontrare padre Alex Zanotelli - e dopo all'ostello gestito dalle suore della Consolata, dove si fermavano tutti i missionari in arrivo o in partenza dal Kenya e dove anche noi prendemmo alloggio. La stanza era spoglia, arredata con meno del necessario, i servizi igienici e le docce in comune; in compenso però si pagava pochissimo ed era inclusa la colazione del mattino. La sosta prevista era di due giorni, il tempo utile per fare delle spese che Roberto aveva in una nota, e saremmo ripartiti. In quei due giorni ebbi modo di assaporare Nairobi, le sue strade di periferia in terra battuta e rossa, come dei campi da tennis, un immane via vai di gente che correva in tutte le direzioni, i suoi sporadici bus municipali stracarichi di passeggeri aggrappati alle portiere. Tutto mi sembrava strano, anche insensato, eppure dovevo per un mese abituarmi a questa gente, accettarla così com'era, senza fare domande. Ero venuto per prestare la mia opera di chirurgo, ma anche per conoscere le abitudini, le esigenze, la cultura, così lontana dalla nostra da fare paura. Credevo di essermi preparato adeguatamente e adesso mi sottoponevo alla prova del nove.

Ci rechiamo al Nazareth Hospital, a circa trenta chilometri da Nairobi, che è già pomeriggio. Mi accorgo piano piano che qui in Africa il tempo ha una dimensione diversa che in Italia. Qui niente viene scandito dall'orologio, tutto sembra precario, ma la giornata non è meno lunga e impegnativa di altre parti del mondo. Il Nazareth sorge in mezzo ad una coltivazione di caffè, in un paesaggio collinare, e per arrivarci, lasciata la superstrada proveniente da Nairobi, bisogna avventurarsi in un sentiero sterrato e pieno di buche da entrarci l'intera Toyota. Ai bordi della strada, e nel piazzale antistante l'ospedale, troviamo accampate centinaia di persone semi nude, magre da fare spavento, che cercano di fermare la nostra auto nella speranza di racimolare qualcosa da mangiare. Bambini nudi, soli, nel caldo irrespirabile del pomeriggio, danno all'intera scena un tocco di squallore e di inumana debolezza da far pensare di aver sbagliato itinerario, e di essere precipitati nell'inferno. All'interno ci accoglie Pinuccia, una giovane donna, minuta, che sta lì da diversi anni a sopportare sulle sue piccole spalle il peso dell'intera attività chirurgica, essendo una ginecologa in aspettativa perenne dal suo ospedale di Santhià, in Piemonte. Mi porta in giro per i reparti, e mi accorgo che non esistono né i comodini né le sedie sulle quali le pazienti possano sedersi qualora decidano di non rimanere a letto. Le corsie sono piuttosto buie, ognuna con quattro letti, col pavimento in cemento, senza mattonelle. L'intonaco alle pareti è colorato di un azzurro stantio. C'è un forte odore sgradevole al quale non sono abituato, ma devo stare attento a non arricciare il naso per non urtare la sensibilità delle ragazze ricoverate. Pinuccia mi mostra un ecografo, che è riuscita a farsi mandare dal suo ospedale, luogo in cui era ormai in disuso, e con il quale si può permettere una buona attività diagnostica. Decidiamo, dietro suo invito, di rimanere a cena e di pernottare. Per ricambiare la sua cordialità mi offro di aiutarla qualora in nottata ci fosse l'eventualità di un'urgenza chirurgica, e le dico di non avere quindi alcun timore a svegliarmi anche in piena notte. Alle sette del mattino squilla il telefono. Era lei che mi avvertiva di un'urgenza, una gravidanza extrauterina, e se avessi voluto, avrei potuto raggiungerla nel blocco operatorio, in cui era già tutto pronto. Non me lo faccio ripetere due volte che salto giù dal letto come uno scoiattolo. Raggiungo la sala e vedo la paziente già sul lettino e una suora che inizia l'anestesia con una maschera. Una volta eseguito il suo compito, la suora lascia tutto in mano ad un'allieva indigena e scompare nel nulla. Anche il ferrista è un indigeno, un ragazzone che può competere sicuramente su qualche ring di New York senza sfigurare. Vedo che prepara una bottiglia vuota con un imbuto, ricoperto all'interno da una banale garza. Chiedo a Pinuccia cosa significa quel rituale, se fa parte di una stregoneria o se è un'abitudine che io non conosco. Mi dice che qui in Africa il sangue che si trova nell'addome dei pazienti - come nel caso che stavamo per affrontare - non va aspirato e buttato via, ma viene raccolto con un mestolo da cucina e filtrato, in modo da praticare, nell'eventualità in cui ce ne fosse bisogno, un'autotrasfusione. La necessità acuisce l'ingegno, è proprio vero. Inizio a scoprire queste piccole verità facendo anche la figura dell'ignorante occidentale. Al ritorno in Italia, quando ebbi l'opportunità di comprare un volume sulla chirurgia nei Paesi in via di sviluppo, mi resi conto che non si trattava affatto di un rito magico, ma la bottiglia col sangue da raccogliere e l'imbuto e il mestolo erano tutte cose ben descritte e disegnate.
L'intervento, a pensarci, non diede particolari preoccupazioni, anche se devo ammettere con umiltà che mi feci trovare impreparato da alcuni imprevisti. La giovane donna presentava una grande quantità di "aderenze", come se fosse stata operata decine di volte. In realtà, mi spiega Pinuccia con calma quando l'intervento ebbe termine, che le aderenze erano dovute a numerose infezioni pelviche, guarite tutte spontaneamente, senza l'ausilio di antibiotici.
Qui, mi chiarisce Pinuccia, sopravvive chi ha una naturale resistenza alle infezioni. Tutti gli altri non hanno scampo. L'età media è infatti di 45 anni. Quindi la morte è considerata un evento naturale e come tale viene accettato, senza drammi né isterismi. Solo da noi ci si ostina a vivere anche oltre i novant'anni, e la morte è sempre vista come una punizione divina. Quando capiremo che la morte è la naturale conclusione della vita, forse allora riusciremo a compiere un vero salto di qualità.
Ci lasciamo con Pinuccia dandoci appuntamento al mio ritorno da Sololo, esattamente fra 25 giorni. Quell'incontro però non ci fu mai. Quando ritornai a Nairobi lei era ammalata, aveva la febbre e non mi fu possibile incontrarla; potei solo salutarla al telefono, la sera prima del mio ritorno in Italia. Seppi qualche mese dopo, quando chiesi sue notizie, che era morta per una leucemia acuta. Mi sentii trapassare il petto da una spada tagliente. "Tu, piccola grande donna hai dedicato in segreto, senza clamori, la tua vita per i bisogni di tanti disgraziati, cercando di alleviarne i dolori e le fatiche quotidiane. A te, piccola Pinuccia, va il mio ricordo più caro, alla tua ostinata volontà di rimanere accanto alla gente di Nairobi, gente che vive la propria indigenza con estrema dignità, la cui unica sventura è stata quella di nascere in un paese povero, tenuto sotto il giogo dell'uomo più ricco d'Africa, il dittatore Daniel Arap Moi.
"Ricorderò di te il coraggio nell'affrontare l'ambulatorio nella missione di Kariobanghi, dove si vive ai margini di una discarica pubblica, dove la suora mi intimò categoricamente di non inoltrarmi nella bidonville perché non ne sarei uscito vivo, dove nove abitanti su dieci sono sieropositivi, dove esiste solo prostituzione, dove ogni notte avviene un omicidio e nessuno se ne preoccupa, dove esiste la negazione dell'individuo, di tutti gli individui. Eppure, guardando oltre la strada che separa quest'inferno dalla città, hai minimizzato e voluto dare un tocco di mondanità e di leggerezza; mi hai fatto notare che lì di fronte, in uno di quei palazzi ristrutturati, alcuni anni fa fu girato il film "La mia Africa", con Robert Redford e Meryl Streep".

Al mattino prendiamo la via verso nord. Sololo è ai confini con l'Etiopia. Bisogna viaggiare per ottocento chilometri, esattamente per due giorni, a bordo del fuoristrada Toyota in dotazione, e con John pronto e quasi impaziente di far ritorno a casa. Lasciamo Nairobi e le sue bidonville e ci dirigiamo verso Nanyuki, dove ci riforniamo di verdure e scatolame vario. La carne, mi rende partecipe Roberto, l'avremmo comprata a Marsabit, il paese sede anche di arcivescovado, e prossima nostra sosta.
Il monte Kenya è lì, a pochi chilometri. È imponente, con un cappuccio di nuvole bianche sopra, a mo' di berretto. A Isiolo, l'ultimo villaggio, giungiamo alle undici, quando i militari aprono la strada rimasta chiusa per tutta la notte e buona parte del mattino. Durante il viaggio ho modo di conoscere popolazioni di diverse etnie, come i Samburu, con il viso dipinto di colori accesi, un piccolissimo slip per coprirsi e una lancia in mano. Due di loro sono accovacciati all'ombra di una costruzione che deve essere un luogo di sosta per chi si avventura da queste parti. E infatti John si ferma per fare rifornimento di una bevanda a noi sconosciuta. Roberto mi sussurra, dopo, che John ha una simpatia per gli alcolici.
Riprendiamo il percorso dopo venti minuti e con una temperatura che supera i 40 gradi. Il viaggio tutto sommato è monotono, non incontriamo animali se non alcune zebre, mentre avrei preferito imbattermi in qualche leone o elefante. Ma John ci spiega che questa è una stagione oltremodo secca, e che gli animali stanno migrando alla ricerca di qualche sorgente d'acqua.
Solo in prossimità di Marsabit la strada è asfaltata, finalmente. A sinistra c'è un cartello che indica il punto in cui idealmente passa l'equatore. Lì la strada si fa più larga per permettere la sosta ai pullman dei turisti. Anche noi non resistiamo alla tentazione di una foto ricordo.
Marsabit. Questa cittadina su un altipiano di oltre 700 metri sarà per questa sera la nostra culla. Una visita in parrocchia a salutare il missionario e poi a dormire. Siamo stanchi dal lungo viaggio. Io, oltre ogni cognizione, sono il più stravolto dei tre.
Al mattino l'aria sembra fresca. Usciamo, assieme a Roberto, e ci accorgiamo che il paese è avvolto nella nebbia. Tutto mi sarei aspettato venendo in Africa, tranne di trovare il clima della pianura padana. È proprio il mio destino avere a che fare con le nebbie taciturne e infide.
Anche a Marsabit, come a Isiolo, non possiamo metterci in moto perché la pista è chiusa dai militari. Si sussurra che in nottata ci sia stato un attentato, e che la milizia abbiano effettuato una retata di ribelli. La strada sarà aperta quando si formerà una carovana di auto sufficientemente lunga, che verrà scortata dai governativi, per scoraggiare eventuali imboscate. Siamo tutti in attesa, silenziosamente e in fila indiana. A poche decine di metri scorgo due militari, con i fucili puntati sulla schiena di un ragazzo che viene spinto oltre le ultime case, al sicuro da sguardi indiscreti. Chiedo a Roberto cosa stia succedendo, chi è quel ragazzo semi svestito, con le mani legate dietro la schiena, smunto e magro come un chiodo, infreddolito, che cammina con passo rassegnato e scompare nella nebbia. È un ribelle che i militari hanno catturato. Lo stanno portando lontano, e verrà sicuramente fucilato. Qui non esistono processi, puntualizza Roberto. A dire il vero non esistono nemmeno leggi scritte. In questa terra nessuno ha diritti. Se questa è l'Africa dei contrasti, penso, è meglio fare le valigie. Un ragazzo povero che probabilmente ama il suo paese più di qualcun altro, sta per essere fucilato da altri ragazzi, cui viene assicurato un pezzo di pane, ma ugualmente poveri. Ecco la stranezza di questo mondo: i poveri con la divisa uccidono altri poveri. Solo i ricchi non hanno nemici e rivali, e la ricchezza, in ogni caso, spiana qualsiasi montagna. È proprio vero che la storia si ripete in ogni angolo di mondo. Chi non ha niente da mettere in vendita diventa automaticamente un miserabile da evitare, al massimo da compatire. Chi porterà un po' di speranza a queste popolazioni? Che futuro avranno? Saranno maledetti sino alla fine dei secoli? Troppe domande mi frullano in testa, e comincio ad avere il cuore gonfio di pena, di lacrime, di rabbia. Capisco, in quella mattina nebbiosa, che la povertà è uguale a tutte le latitudini, e il povero parla ovunque la stessa lingua. Mi chiedo se i fucili puntati sulla schiena di quel ragazzo non siano anche i nostri ostinati silenzi.
Dopo qualche ora lasciamo Marsabit con l'amaro sapore delle ingiustizie viste in faccia. Cosa dovrò ancora vedere in questo mese di permanenza?

Sololo ormai è vicina. C'è da attraversare Sigiso plain e ci ritroveremo nella terra dei Borana. Potrò riabbracciare Gianfranco e Marcella, sua moglie. La strada prosegue per Moyale, ma John svolta a sinistra e già si vedono le prime capanne di foglie, esattamente come mostrano i documentari in televisione. La pianura sembra sterminata, senza vegetazione. In lontananza le montagne che separano il Kenya dall'Etiopia sono di colore grigio e sembra si debbano toccare con una mano.
All'ingresso del villaggio decine di bambini ci vengono incontro. Per loro che non hanno niente, mi dice Roberto, anche la vista della Toyota con nuovi missionari è un evento eccezionale, un motivo di festa.
L'Ospedale sorge accanto alla missione dei frati. L'intera area è recintata da una rete di fil di ferro, non tanto per delimitare la nuda proprietà, quanto per evitare l'ingresso di animali indesiderati durante la notte.
Gianfranco e Marcella sono davanti alla loro abitazione, all'interno dell'area ospedaliera, che ci attendono; lei barcollante col suo pancione, accanto ad una bouganville, sorridente. Gianfranco, già magro, è quasi evanescente, etereo.
Ci abbracciamo fortemente per diversi minuti. Non vogliamo staccarci da una stretta attesa e desiderata da troppo tempo.
A Sololo, mi dice Gianfranco a cena, ci sono pace e povertà. Qui potrai trovare, a sera, il cielo più stellato dell'intera Africa: è l'unica attrazione naturale di questo villaggio.
Alle nove in punto, infatti, quando il gruppo elettrogeno che tiene in vita tutto ciò di cui un ospedale ha bisogno, viene spento da John, ci sediamo sul portico di casa e rimaniamo soli e in silenzio, rischiarati soltanto dalla luna. Non è questo, il silenzio della nostra civiltà. È una quiete totale, che mette i brividi. Mi accorgo che non sono addestrato neanche al silenzio! Mi abituo presto a parlare a voce bassa e senza enfasi. Scopro che l'Africa non ha bisogno di rumore, né di magniloquenza.

Francesco, il primogenito di Marcella e Gianfranco, nasce a Meru il 14 gennaio del 1992. Lei era andata via da Sololo solo all'ultimo giorno, accompagnata da suo marito. All'Ospedale di Meru avrebbero trovato più assistenza, poiché c'erano sia gli ostetrici che i medici pediatri.
Al loro ritorno tutto il personale dell'ospedale si pone pazientemente in fila davanti all'uscio di casa per conoscere il piccolo, "il figlio del doctor".
Nei giorni in cui rimasi da solo a gestire il lavoro, non mi allontanai dall'ospedale nemmeno per un solo attimo. Solo un giorno, nel pomeriggio, uscii per andare in parrocchia a trovare don Mario, un padre comboniano che viveva in Africa da venti anni e un diacono che invece era li da cinquanta. Ero andato per pregare qualche minuto, e invece trovai modo di dialogare con don Mario di questa gente, che non ha - mi dice - nient'altro che la terra sotto i piedi e il cielo sulla testa. Solo terra e cielo. Qui le uniche proteine sono quelle che distribuiamo noi con i fagioli; e quest'anno di fagioli ce ne sono davvero pochi. In Italia voi siete troppo occupati, avete troppo benessere, non immaginate nemmeno che ci possa essere un popolo così povero. Voi avete molte cose a cui pensare: pagare le tasse, comprare l'auto, seguire la moda, scegliere cosa mangiare e dove mangiare; e poi, i sindacati, la politica, l'ascensore di casa che non va e le liti condominiali. Ebbene, qui tutto viene cancellato. Cancellato dalla miseria. Solo terra e cielo. E basta. Com'è possibile vivere senza niente che non sia terra e cielo? Non potevo concepirlo, ero confuso, la mia fede vacillava. È vero che il male e il bene, il benessere e la povertà, si compensano nell'intero universo, ma perché incanalare la povertà sempre dalla stessa parte?
Ritorno a casa frastornato. Temevo di conoscere altre realtà, ma così repentinamente, e senza mezzi termini, sinceramente mi lasciano sconcertato.
Transito davanti ad una capanna, costruita di fango e foglie, a base circolare, e vedo, dritta sull'uscio, una donna magra, alta, di colore bruno tipico dei borana, con gli occhi azzurri intensi. Ha il viso reclinato leggermente sulla spalla destra, le labbra che accennano ad un lieve sorriso, quasi fosse un timido saluto, e un bambino piccolo in braccio. Ho l'impressione di trovarmi di fronte alla Vergine con Gesù Bambino, tanto è la bellezza inusuale di questa donna. Sul suo volto sono disegnate la pace e la serenità, quelle che noi, nella nostra magnificenza, non conosciamo ancora. Quella donna non ha niente, come tutte le donne del villaggio, eppure è dolcissima e forse anche felice, chissà. Io, figlio del benessere, figlio della ricchezza e dell'opulenza, trascorrevo invece molti dei miei giorni nella totale inquietudine, sommerso dai conflitti e dai dubbi. Questo popolo ai confini del mondo, che non ha niente, che non conosce assolutamente niente, nemmeno il nome Europa o Italia, che forse a stento sa che la sua capitale si chiama Nairobi, è felice. Lo dicono gli occhi dei bambini che non mi stanco di guardare, lo dicono i loro gesti quotidiani. La risposta alla mia fede che vacillava non tardò. Oh, Africa di contrasti!

Qualche giorno prima di lasciare Sololo, Gianfranco contatta l'Amref con la sua ricetrasmittente, e chiede se per il 31 di gennaio è previsto un volo da Moyale per Nairobi. Riceve risposta affermativa e fa richiesta di uno scalo supplementare per venire a prendermi. Avrei evitato, così, il viaggio di ritorno in Toyota e soprattutto altri due giorni di pista sterrata da spaccarsi la schiena. In poco più di un'ora sarei stato a Nairobi, avrei raggiunto le suore della Consolata e incontrato al Nazareth Pinuccia.